ANGELO DEIANA, presidente Confassociazioni
Cari tutti,
in considerazione del dibattito che si è sviluppato sul tema del referendum costituzionale del 4 dicembre prossimo e in virtù delle richieste che ci sono pervenute da molti della nostra importante rete professionale, abbiamo deciso di dedicare un numero speciale della nostra newsletter per cercare di approfondire, pur nella sintesi, le principali ragioni di ognuna delle due parti.
Ecco allora una serie di interventi di importanti personaggi del nostro mondo politico e istituzionale che elencano le proprie ragioni in forma sintetica. Noi vogliamo ringraziarli tutti per l’attenzione che, pur nel fervore della campagna referendaria, hanno dedicato a Confassociazioni, alle sue 260 associazioni e ai suoi 460mila professionisti iscritti.
Nel contempo, invitiamo tutti i nostri lettori a leggere con attenzione questi contributi e a rivederli insieme al testo a confronto dell’attuale Costituzione e degli articoli che si vogliono cambiare (http://documenti.camera.it/le
Perché, come Confassociazioni ripete in tutte le occasioni possibili, il problema non è scegliere ma essere consapevoli delle scelte che abbiamo effettuato. Di qualunque livello esse siano. #professionistiperilpaese
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Maria Elena Boschi, Ministro per le Riforme Costituzionali e i Rapporti con il Parlamento*
“Ci stiamo avvicinando ad un appuntamento molto importante per la storia delle nostre istituzioni e per il futuro del nostro Paese: il referendum confermativo della revisione costituzionale.
Attraverso questo straordinario strumento di partecipazione, tutti noi, cittadine e cittadini italiani, siamo chiamati a scegliere se confermare o meno la riforma costituzionale approvata dal Parlamento lo scorso 12 aprile, dopo due anni di lavoro.
Il referendum è decisivo. Solo insieme potremo decidere, votando sì, di cambiare la nostra Costituzione. Certamente non la prima parte – quella in cui sono sanciti i principi fondamentali, i valori nei quali ci riconosciamo come popolo italiano – che resta immutata, ma la seconda, che riguarda l’organizzazione dello Stato.
Per anni i cittadini hanno chiesto di ridurre i costi della politica, di diminuire le poltrone e di avere un apparato pubblico più efficiente, senza essere presi sul serio. Per la prima volta, il Parlamento ha ascoltato e ha votato una riforma che riduce il numero dei parlamentari e i costi della politica e che trasforma profondamente le istituzioni.
La decisione spetta però adesso a milioni di uomini e di donne. Affinché la riforma diventi realtà occorre che vinca il Sì al referendum. È allora fondamentale arrivare a questo appuntamento informati, consapevoli della scelta che siamo chiamati a compiere e che ci carica di una responsabilità cruciale. È una occasione unica per poter scegliere insieme il futuro dell’Italia.
Questo volume nasce dal desiderio di fornire gli strumenti indispensabili per poter valutare nel merito la riforma costituzionale che viene proposta al Paese, per poterne conoscere il contenuto, le soluzioni istituzionali, per verificare come dopo anni di rinvii vengano finalmente sciolti alcuni nodi e superate alcune inefficienze del processo decisionale. Alcuni dei più importanti costituzionalisti, politologi ed esperti di istituzioni, di diversa ispirazione, hanno dunque deciso di mettere in luce i tratti principali della riforma, il dibattito che negli anni ha condotto alla elaborazione di questa proposta, gli obiettivi che persegue, i punti di forza di questo nuovo disegno della nostra architettura costituzionale.
Le ragioni che hanno portato gli autori di questa raccolta a sostenere il Sì alle riforme si fondano ovviamente su argomentazioni di carattere tecnico e giuridico, senza voler entrare nel dibattito politico. Ma la Costituzione è di tutti. Non solo dei professori universitari o dei politici, né tanto meno di un partito o di un altro.
La Costituzione è l’insieme dei valori di un popolo, sanciti in un testo scritto, e al contempo lo strumento con cui si disegnano l’equilibrio fra i poteri e le modalità con cui prendere le decisioni, come ci insegna anche questo volume. I diritti che essa riconosce, il modo con cui devono essere garantiti alla popolazione di oggi e alle generazioni future sono di tutti, a prescindere dalla condizione sociale e dalle differenze di sesso, razza, religione e opinioni politiche.
Allo stesso modo, la capacità delle istituzioni di prendere decisioni in tempi utili per rispondere alle esigenze della società non è importante per chi governa, ma per i cittadini e per le imprese, per i lavoratori e per i datori di lavoro. Per tutti noi. Per questo è necessario spiegarla e parlare con un linguaggio preciso ma chiaro, che sia comprensibile a tutti. Perché le cose complicate quasi mai sono le migliori.
Questo volume ha, quindi, il merito di affrontare temi complessi con parole semplici. Non è un testo per addetti ai lavori, ma per chiunque abbia voglia di approfondire i contenuti della riforma. E ci fa capire che quella che verrà sottoposta a referendum in autunno è una riforma equilibrata e fondamentale per rendere il nostro Paese competitivo di fronte alle sfide del nostro millennio.
È una riforma che garantirà meglio i nostri diritti e aumenterà gli spazi di partecipazione dei cittadini attraverso, ad esempio, l’abbassamento del quorum per i referendum abrogativi e l’introduzione di referendum propositivi e di indirizzo.
È una riforma che fa tesoro di una elaborazione più che trentennale e risponde a problematiche organizzative e di funzionamento che il nostro ordinamento presenta sin dalle sue origini. Una riforma che rende più semplice e più chiaro il procedimento legislativo, superando il bicameralismo paritario.
È una riforma che riduce il numero dei parlamentari portando da 315 a 100 il numero dei senatori, che riduce i costi della politica mettendo, tra l’altro, un tetto agli stipendi dei consiglieri regionali.
È una riforma che razionalizza la divisione di poteri tra Stato e Regioni, che supera la confusione della competenza concorrente, che semplifica il rapporto tra i diversi livelli di governo nel territorio.
È una riforma che abolisce il Cnel e supera definitivamente le Province.
In poche parole, è una riforma che rende l’Italia più stabile, più semplice e più efficiente.
La conferma della riforma costituzionale con il referendum non è sicuramente la fine del processo di cambiamento profondo che è in atto nel nostro Paese, ma costituisce la tappa cruciale per poter avere istituzioni che funzionano meglio e strumenti più efficienti per affrontare le scelte e le sfide che ancora ci aspettano per rendere il nostro Paese più moderno.
Questo volume rappresenta, quindi, un contributo al dibattito pubblico delle prossime settimane e uno strumento importante per chiunque voglia approfondire le ragioni del Sì ad una riforma storica della nostra Costituzione.
*Prefazione al libro “Perché sì. Le ragioni della riforma costituzionale”, a cura di Massimo Rubechi, ed. Laterza
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Renato Brunetta, Capogruppo alla Camera per Forza Italia
Nella riforma si specifica, al nuovo art. 119, che con legge dello Stato sono definiti indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza nell’esercizio delle medesime funzioni.Questo inserimento però contraddice totalmente il vero e proprio massacro che questa riforma compie nei confronti delle regioni e, più in generale, del principio di autonomia sancito dall’articolo 5 della Costituzione (che parla di “riconoscimento e promozione delle autonomie locali”) .
Già in questi anni i comuni e le Regioni virtuose sono state penalizzati dalla mancata introduzione dei “costi standard”, e hanno pagato – in tutti i sensi – per chi ha sprecato e speso male i soldi dei cittadini.E Renzi che fa? Propone una riforma che ri-centralizza tutto: diversi elementi della riforma (l’esenzione totale delle regioni speciali, il depotenziamento del regionalismo differenziato, il rischio di un pervasivo centralismo) evidenziano una ricetta inadeguata al ritorno all’efficienza della spesa pubblica.
Con la riforma, le regioni ordinarie, anche quelle virtuose, vengono consegnate al destino di vedere travalicate tutte le loro competenze – anche in ambiti in cui hanno fornito prove eccellenti – per l’effetto “vampiro” della clausola di supremazia statale, in ossequio alla quale la legge dello Stato potrà intervenire anche sulle materie di competenza delle Regioni, qualora “l’interesse nazionale” lo richiedesse. Ad esempio i modelli di organizzazione della sanità di Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Marche, sono eccellenze mondiali. Il punto di forza di questi sistemi è la differenziazione: il modello lombardo è diversissimo da quello toscano, quello veneto da quello emiliano e così via.
La riforma fa poi diventare la materia “coordinamento della finanza pubblica” di competenza esclusiva dello Stato, non solo decretando la fine del principio di responsabilità impositiva, ma fornendo piena legittimazione ai tagli lineari statali che hanno sempre scacciato la spesa buona e mantenuta quella cattiva.
In sintesi le verità impazzite della riforma costituzionale riportano il pendolo della storia sul centralismo e non sulla responsabilità.
Ma quel pendolo non si può sballottare troppo radicalmente in modo indolore: probabilmente il nuovo centralismo oltre a smantellare i sistemi virtuosi farà anche riproliferare gli apparati statali: i costi saranno ingenti e certo non comparabili ai (risibili al confronto) risparmi che si otterranno eliminando gli emolumenti dei senatori.
Ebbene: davanti a questa enorme confusione che regna nel riparto di competenze Stato-Regioni, e nel nuovo centralismo che uccide le autonomie, a rimetterci sono cittadini e imprese, che non vedranno semplificati i livelli decisionali, ma saranno sempre più schiacciati da burocrazia e caos. Il livello decisionale a loro più vicino, quello delle autonomie locali, si ritroverà compresso in un sistema che le mortifica.
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Cesare Damiano, Presidente Commissione Lavoro Camera dei Deputati
Sostengo le ragioni del Sì avendo a cuore prima di tutto democrazia, lavoro, welfare, solidarietà, equità, partecipazione.
Ora è il tempo di scegliere. Il tempo della responsabilità per irrobustire la democrazia, dare più forza al Parlamento, qualificare l’azione del Governo, definire meglio il ruolo delle Regioni, valorizzare i Comuni, migliorare tempi e processi decisionali superando innanzitutto il bicameralismo paritario, dare più voce ai cittadini con le leggi d’iniziativa popolare e i referendum.
Sul referendum costituzionale come sull’Italicum c’è stata una discussione lunga, controversa e difficile: alcuni suggerimenti della minoranza PD sono stati accolti. Avrei qualcosa da ridire su alcuni punti della riforma costituzionale, così come sulla legge elettorale. Però ad un certo punto è necessario arrivare in fondo alla discussione e scegliere consapevolmente.
Anche perché in Europa e non solo questa riforma, se passa, viene letta come la continuazione di un tentativo dell’Italia di riformarsi e questo può aprire le strade a una maggiore flessibilità nei conti, un’azione più spinta verso gli investimenti, cose in cui spero perché sono contro l’austerity.
Nel merito penso che la semplificazione del sistema istituzionale sia positiva. Quando ero all’opposizione sono riuscito a far rimbalzare 8 volte fra Camera e Senato il “collegato Lavoro” dell’allora Ministro del Lavoro, Sacconi. Se c’è una sola Camera che dà la fiducia sarebbe giusto.
E, dunque, per una democrazia inclusiva e decidente, per una politica capace di migliorare se stessa e le istituzioni, in cui i cittadini tornino a riconoscersi, per dare voce e protagonismo a chi non ne ha, al referendum del 4 dicembre voterò consapevolmente Sì.
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Luigi Di Maio, Vice Presidente della Camera dei Deputati
Andrò subito al punto. Ritengo che ci sia un problema di fondo: riformare la Costituzione non era tra le priorità né delle imprese, né del Paese. Gli interventi di cui ha bisogno l’Italia – e su cui il governo Renzi ha fallito – sono sburocratizzazione, detassazione e interventi contro la corruzione, il vero cancro che tiene lontani gli investitori.
Io penso che questa sia una riforma nociva per l’Italia e per il nostro sistema produttivo, perché crea più burocrazia e complica il funzionamento delle istituzioni: il contrario di ciò che affermano i sostenitori del sì.
Il parlamento ha prodotto in media una legge ogni 5 giorni, circa il doppio delle leggi approvate dal parlamento tedesco solo l’anno scorso. E’ evidente che il punto non è la velocità di approvazione (un esempio su tutti: la Legge Fornero è stata approvata in poche settimane). Si sente anche parlare del ping-pong tra Camera e Senato, ma io preferisco parlare di numeri, non di slogan: su 252 leggi, ben 202 sono state approvate con una sola votazione e solo 50 hanno richiesto una votazione in più in questa legislatura. Esiste, piuttosto, un problema di interessi: per chi vengono fatte le leggi? Per quali interessi? In Italia abbiamo leggi che contraddicono leggi precedenti, norme che obbligano i professionisti a districarsi in una giungla, dedicando ore alla burocrazia invece che al proprio lavoro.
Che la riforma di Renzi vada nella direzione di complicare le cose, è evidente dal semplice confronto dell’articolo 70 (procedimento di approvazione delle leggi): l’attuale ha 9 parole, quello proposto 438. I costituzionalisti calcolano 10 nuovi iter di approvazione, rispetto all’iter unico attuale. Le legge verrà discussa solo alla Camera? O anche al Senato? Si dovranno accordare i presidenti delle due camere. Un esempio: se è in discussione una legge sugli agriturismi, potrebbe coinvolgere materie come attività produttive, agricoltura, ma anche trattati europei. La probabilità che il Senato debba intervenire su una delle 16 materie di sua competenza è alta. In breve: il bicameralismo resta.
Infine, questa riforma toglie diritti e concede privilegi: toglie il diritto di eleggere il Senato (art. 57, comma 2 della riforma), che viene trasformato in una camera di consiglieri regionali e sindaci part time che avranno l’immunità.
Il No è un no per il futuro, e per il Paese.
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Stefano Fassina, Sinistra Italiana
È sempre più preoccupante la deriva del dibattito verso il referendum del 4 dicembre sulla revisione costituzionale. Proviamo a guardare alle questioni fondamentali. Cosa può essere la vittoria del No? Può essere la chiusura di un lungo ciclo storico, iniziato nobilmente dopo la fine del “compromesso storico”, in nome della diversità, non solo politica ma finanche morale. Una lunga fase, segnata prima da Tangentopoli e dal sistema elettorale maggioritario, poi dall’avvento del Berlusconismo, infine dall’arrivo del M5S. Una lunga fase durante la quale abbiamo tutti praticato un’etica malata della democrazia: la democrazia come dominio della maggioranza (sempre relativa), nella negazione della legittimità morale, culturale e politica dell’altro; la mediazione politica come immorale a prescindere. Ovviamente, vi sono stati dati di realtà a alimentare la deriva descritta: i compromessi sono stati troppo spesso al ribasso e per fini particolaristi. Soprattutto, vi è stata una sempre più acuta incapacità dei soggetti politici, per cause oggettive e impoverimento culturale e morale delle sue classi dirigenti, di legittimarsi nei confronti dei cittadini attraverso una propria ragion d’essere (un’autonoma lettura del Paese, un conseguente programma di governo, una classe dirigente adeguata) e, conseguentemente, l’imbocco della scorciatoia della legittimazione indiretta attraverso la delegittimazione dell’altro (Berlusconi contro il pericolo comunista; il centrosinistra contro l’eversione berlusconiana; oggi il M5S contro tutti gli altri). Il paradosso è stato che, dietro allo “scontro di civiltà”, si celava sostanzialmente la stessa agenda, l’unica agenda possibile dentro l’euro-zona: There Is No Alternative, secondo il mantra neo-liberista.
È ora di girare pagina. L’Italia non regge l’ulteriore divisione alimentata dal plebiscito sul Governo giocato sul terreno costituzionale. La condivisione delle regole del gioco è, in generale, condizione esistenziale per una comunità. Lo è ancora di più oggi, poiché lo scenario europeo e internazionale, privo oramai di porti sicuri e di virtuosi “vincoli esterni”, richiede un comun denominatore pur minimo, ma solido, alla nostra malconcia comunità nazionale. Invece, la scelta di portare avanti una revisione costituzionale con la stretta maggioranza di governo e l’imposizione del voto di fiducia sulla legge elettorale sono state le stazioni ultime del lungo viaggio a ritroso durato quasi quattro decenni. Un viaggio fuori fase: la vittoria del Si contro metà del Paese darebbe stabilità di breve periodo, ma renderebbe ancora più fragile l’assetto istituzionale e indebolirebbe ancora di più la effettiva capacità di governo, nonostante il rafforzamento formale della governabilità.
Soltanto la vittoria del No può, insisto può, determinare le condizioni necessarie per rigenerare un tessuto unitario. La vittoria del No può chiudere a fase della democrazia come negazione dell’altro e aprire la fase della ricostruzione di un’etica sana della democrazia: democrazia come convergenza tra visioni generali e interessi economici e sociali specifici e diversi; il Parlamento come luogo trasparente della discussione, di scontro e ricerca dell’incontro tra diversi.
Sono aspettative ingenue e senza fondamento? No. Con la bocciatura della revisione costituzionale oggetto del referendum, i campioni del Si, sconfitti nonostante gli squilibrati rapporti di forza mediatici e economici, dovrebbero prendere atto dell’impossibilità di andare avanti “da soli”. Sull’altro campo, i “vincitori”, consapevoli delle ragioni profonde del risultato, farebbero fatica a contraddire i principi sbandierati e le soluzioni indicate nella brutta campagna referendaria vissuta: sul versante della Costituzione, la condivisione larga delle regole del gioco per rivitalizzare il senso di appartenenza alla comunità nazionale, prima che a una comunità parziale; sul versante elettorale, un impianto proporzionale che, per quanto corretto, in via ordinaria richiede la convergenza con l’altro, con una parte degli altri, in Parlamento.
La vittoria del No è condizione necessaria per il cambiamento (progressivo). La prevalenza del Si è la continuità di una democrazia (regressiva) insostenibile.
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Lorenzo Fontana, Eurodeputato Lega Nord
Meno democrazia, più centralismo statale, meno autonomia ai territori:più che una riforma quella che ci apprestiamo a votare – questa domenica – è una Costituzione violata.
Noi diciamo No. No a una ‘riforma’ imposta a colpi di maggioranza, una ‘riforma’ che divide invece di unire, che rinnega la strada imboccata dai Padri Costituenti, quelli veri.
Non è una sfida tra chi vuole cambiare e beceri conservatori, come ce la vogliono dipingere. La sfida è tra chi vuole cambiare in peggio – i fautori del Sì – e chi invece vorrebbe una nuova Costituzione realmente condivisa, frutto di una nuova Costituente, come i nostri padri ci hanno insegnato. Quella che ci apprestiamo a votare è una ‘riforma’ delle occasioni mancate: il Senato, invece di essere eliminato del tutto o trasformato in Senato federale (su modello del Bundesrat tedesco) sarà ridotto a dopolavoro per sindaci e consiglieri regionali. Già molti primi cittadini – anche del Pd – hanno manifestato riserve. Per giunta appare ancora ignoto il metodo elettivo, con il conseguente rischio di una finta rappresentanza decisa da altri.
Se malauguratamente dovesse vincere il ‘Sì’ il popolo continuerà a non potersi esprimere su temi fondamentali per la vita delle nostre comunità come il fisco e le leggi di bilancio, né potrà dire la sua sui trattati internazionali, ciò vuol dire che siamo e continueremo ad essere schiavi dell’Europa. Commercio, industria, agricoltura, pesca, caccia: da Bruxelles decideranno sopra le nostre teste, senza possibilità di appello. Una democrazia azzoppata, insomma. E questo è chiaro anche leggendo il nuovo articolo 71: per proporre una legge di iniziativa popolare le firme passeranno da 50 a 150mila. Si vuole soffocare la voce dei cittadini, rendendo loro più difficile partecipare direttamente al processo legislativo, un disincentivo al coinvolgimento. Pericolosa anche la deriva centralista imposta dal nuovo articolo 117, che sancisce l’ingerenza dello Stato sui territori: in qualsiasi momento il governo – con l’alibi della fantomatica ‘tutela dell’interesse nazionale’ – potrà intervenire anche in materie che non sono di sua esclusiva competenza, scavalcandole autonomie.
Cento giuslavoristi hanno lanciato l’allarme anche per il mondo del lavoro. Tra i principali motivi di preoccupazione: la tutela e la sicurezza del lavoro, che tornerebbe a essere gestita dal ministero anziché da Regioni e Province, dove era stata trasferita nel 1997 proprio a causa delle gravi inefficienze della gestione ministeriale.
Cade anche il falso mito della semplificazione, basti dare un occhio all’articolo 70: nella sua nuova formulazione passerà da 9 a 433 parole.
Il 4 dicembre diciamo No a una pseudoriforma mal fatta. Cambiare per cambiare in peggio? No grazie.
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Gianni Girotto, Portavoce M5S al Senato
Il M5S si è già espresso lungamente ed esaurientemente su tutte le questioni “di merito” della riforma, che non sono certo riassumibili in poche righe. Ritengo perciò più utile tentare di fornire alcuni spunti di riflessione collaterali, cioè sulle premesse e sul metodo, che a mio avviso “tagliano la testa al toro” e chiariscono bene la situazione.
Innanzitutto è abbastanza “curioso” osservare come questa riforma arrivi “puntualmente” dopo che una delle più grandi banche d’affari al mondo, la J.P. Morgan, abbia redatto la sua ormai famosissima lettera in cui lamenta che le Costituzioni dei Paesi del sudeuropa sono “troppo garantiste”. E che la riforma non sia stata affatto chiesta dal Popolo Italiano, ma dai “supporter” europei dell’”austerity” lo conferma esplicitamente lo stesso Governo, nella sua relazione accompagnatoria alla proposta di riforma, nella primissima parte in cui evidenzia come “Lo spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea… e alle relative stringenti regole di bilancio” . Peccato che lo stesso FMI, il primo a volere l’austerity, abbia ormai da tempo dichiarato ufficialmente “scusate, ci siamo sbagliati, l’austerity amplifica la crisi!”.
Inoltre, per elencare sole le prime tre obiezioni nel metodo:
Questa riforma è stata voluta dal Governo, il primo firmatario è il Presidente del Consiglio. Cosa gravissima in quanto la Costituzione è argomento sul quale il Governo non dovrebbe nemmeno mai intervenire (dice nulla il principio di separazione dei poteri legislativo/esecutivo/giudiziario?).
Questa riforma voluta da Governo a guida PD e dal PD, va contro la Carta Costituente del PD stesso. Infatti l’Assemblea Costituente del PD, nel 2008 varò il suo “Manifesto dei valori”, appunto atto costitutivo fondamentale, nel quale dichiara: “La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercè della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza…”. Inoltre nel programma elettorale del 2012, la c.d. “Carta degli Intenti”, il PD promette: “Riformuleremo un federalismo responsabile e bene ordinato che faccia delle autonomie un punto di forza dell’assetto democratico e unitario del Paese…. la crisi della democrazia non si combatte con “meno” ma con “più” democrazia. Il che significa più rispetto delle regole, una netta separazione dei poteri e l’applicazione corretta e integrale di quella Costituzione che rimane tra le più belle e avanzate del mondo.” Ora non occorre essere fini giuristi per verificare che il primo punto (autonomie punto di forza) viene completamente ribaltato da questa riforma che centralizza quasi tutto a Roma, mentre la promessa di “applicare correttamente e integralmente questa Costituzione” viene anch’essa ribaltata in “cambiamo decisamente questa Costituzione”.
Questa riforma è stata votata da una maggioranza Parlamentare risultato di una votazione effettuata con regole stabilite da una legge dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale. Inoltre la Corte di CASSAZIONE (organo supremo del potere giudiziario) ha stabilito in via definitiva che in queste elezioni NON SONO STATI RISPETTATI I PRINCIPI DI VOTO LIBERO-EGUALE-DIRETTO. Onestà intellettuale quindi avrebbe preteso che questo Parlamento si occupasse solo dell’ordinaria amministrazione, emanasse una legge elettorale corretta, e ridasse la parola agli italiani, da quasi 4 anni privi di un Parlamento realmente rappresentativo della loro volontà. A maggior ragione dopo che la coalizione di maggioranza che si è presentata alle elezioni, si è frantumata, ed ora vige una maggioranza non votata dagli Italiani.
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Andrea Mandelli, Vice Presidente 5^ Commissione Bilancio Senato, Responsabile Rapporti con le Professioni Forza Italia
Gentili colleghi,
inizio con il ringraziare il presidente Angelo Deiana per avermi voluto ospitare in questo vostro importante spazio di comunicazione e di condivisione.
La mia ingerenza si spiega con l’imminenza dell’appuntamento referendario, che chiama ciascuno di noi all’espressione di un voto consapevole ed informato. E’ per questo che in poche righe cercherò di condensare alcune delle principali ragioni per le quali il mio invito è a votare NO il 4 dicembre.
Questa riforma è sbagliata nel metodo e nel merito. Nel metodo, è difficile dimenticare le forzature e i colpi di mano che hanno soffocato lo spazio del confronto durante il suo iter parlamentare, facendo sì che l’intervento sulla Carta costituzionale di tutti venisse votato solo da pochi. Non si tratta di questione da poco, perché la mancanza di riflessività e di condivisione ha limitato il respiro della riforma e ha reso impossibile la correzione dei suoi macroscopici errori. Nel merito, il testo del governo presenta molti punti oscuri e alcune chiarissime criticità. Tra i primi, rientra certamente il criterio di nomina dei nuovi Senatori. Ad oggi, sappiamo solo che saranno dei politici scelti da altri politici e sottratti al compito per cui i cittadini li hanno eletti, ossia il governo degli enti locali. Anche il modo in cui verrà regolamentato (attraverso legge ordinaria) il voto a data certa è ancora una grande incognita, benché si tratti di uno degli strumenti più insidiosi per gli equilibri della nostra democrazia. Quanto al nuovo Titolo V, non è difficile prevedere che il redivivo centralismo del governo porti nuovi e costosi contenziosi tra Stato e enti locali. Senza dimenticare che il combinato disposto di centralismo e progressiva demolizione dei corpi intermedi propugnato dal premier, non può essere foriero di prospettive positive per il comparto professionale.
Sono tutti questi argomenti, che potrebbero continuare con la mancanza di veri risparmi e di semplificazione o con l’assenza dell’elezione diretta del Capo dello Stato e di un limite costituzionale al peso delle tasse, che ci spingono verso il No. Perché un cambiamento sbagliato non è meglio di nessun cambiamento quando si tratta della nostra Costituzione.
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LE RAGIONI DEL NO
Giorgia Meloni, Presidente Fratelli d’Italia
Il 4 dicembre è una data storica per i cittadini italiani, che avranno l’opportunità di esprimersi finalmente sulla riforma costituzionale di Renzi e sull’operato di un Governo non eletto da nessuno e composto da burattini di una serie di poteri che votano sì. Votano sì le grandi banche d’affari, le agenzie di rating, il Governo tedesco, Juncker e tutte le burocrazie europee. Ma dove stanno le burocrazie europee e le banche non stanno i diritti e i bisogni degli italiani. Il 4 dicembre è un giorno fondamentale da segnare sul calendario. Mi auguro che quel giorno andranno a votare no quanti più italiani possibile, per mandare a casa un pessimo Esecutivo e bocciare una pessima riforma della Costituzione che non produce risparmi reali, non semplifica l’iter legislativo, non diminuisce i conflitti di competenza tra Stato e Regione, non mette fine all’infamia dei governi nominati e dei parlamentari voltagabbana e non consente al popolo di essere sovrano anche nel rapporto tra l’Italia e l’Unione Europea. Con questa riforma, il Governo chiede agli italiani di esprimersi su una proposta di modifica della nostra legge fondamentale che ignora tutte le questioni che per decenni hanno occupato il nostro dibattito politico-costituzionale. Primo: la forma di governo. Abbiamo visto con gli oltre 60 governi in 70 anni di storia repubblicana che un Parlamento molto forte e un Esecutivo estremamente debole generano instabilità e inefficienza e affermano lo strapotere dei partiti politici nella scelta del Presidente del Consiglio. Una vera riforma della Costituzione doveva partire da qui e modificare prima di tutto la forma di governo ma Renzi non lo ha voluto fare nonostante fossero tante le ipotesi in campo (presidenzialismo, semi-presidenzialismo, premierato forte, ecc.). Il segretario del Pd ha scelto, invece, di limitarsi a modificare in modo confusionario il bicameralismo perfetto lasciando in piedi il Senato, che non verrà abolito ma si trasformerà in una casta di consiglieri regionali e sindaci nominati dalle segreterie di partito e che avranno l’immunità. Dunque, il 4 dicembre gli italiani avranno l’occasione di dire no ad una riformetta pasticciata e scritta male e di riappropriarsi della loro sovranità, mandando a casa un governo abusivo e che fa esclusivamente gli interessi delle lobby e dei poteri forti.
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Tommaso Nannicini, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri
Ci siamo. Domenica gli italiani si esprimeranno sul superamento della competenza legislativa concorrente tra Stato e regioni, sul superamento del bicameralismo paritario e sulla semplificazione del processo legislativo e l’ampliamento degli spazi di partecipazione.
Le professioni, da materia concorrente, tornano ad essere competenza esclusiva dello Stato, ponendo fine ai confusi tentativi di alcune regioni di creare ordinamenti professionali a sé stanti, dando certezza ai professionisti rispetto alla normativa di riferimento, e, cosa ancora più importante, permettendo il rafforzamento di un percorso di riforma avviato con il Jobs Act del lavoro autonomo e con gli interventi fiscali e previdenziali a favore delle partite Iva. Un cantiere ancora aperto per riconoscere a tutto il mondo del (vero) lavoro autonomo, ordinista e non, nuove tutele nella committenza, la certezza dei costi previdenziali e strumenti innovativi di welfare allargato.
Il superamento di un arlecchino di legislazioni regionali su altri temi strategici – in materia fiscale o del lavoro, energetica o infrastrutturale – toglierà oneri impropri e vincoli per tutti i professionisti (e i loro clienti) che ambiscono giustamente a una dimensione nazionale, se non internazionale.
Non solo. L’abolizione del bicameralismo paritario ci consegnerà governi chiari con una sola maggioranza (quella della Camera) e renderà evidente chi ha l’onore e l’onere di fare le scelte. Basta alibi e scaricabarile di responsabilità per una politica che non sa sciogliere i nodi che i cittadini pongono nell’interesse del Paese. Con il Sì al referendum si volta davvero pagina.
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Riccardo Nencini, Segretario PSI
Quarant’anni fa noi socialisti iniziammo a parlare di “grande riforma”. Volevamo che l’Italia avesse Istituzioni all’altezza delle sfide globali di quel tempo ma il nostro appello rimase pressoché inascoltato.
Con il Decalogo Spadolini, la Commissione Bozzi, la Commissione De Mita-Iotti e la Commissione D’Alema, non sono mancati i tentativi di riforma. Tutti falliti.
Ora il Parlamento mette nelle mani degli italiani la possibilità di cambiare davvero. Non gettiamola via!
Sono molti i buoni motivi per scegliere un convinto Sì il prossimo 4 dicembre. Cinque in testa: la parità tra uomo e donna nelle istituzioni che entra tra i principi fondamentali della Carta Costituzionale; il superamento del Bicameralismo paritario che consentire di snellire e velocizzare l’iter di approvazione delle leggi, un’intuizione che i socialisti definirono già nella Conferenza Programmatica di Rimini nel 1982; l’abolizione delle Province e del CNEL, enti costosi, di cui possiamo fare a meno indirizzando il risparmio là dove ce n’è più bisogno; una nuova ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni per dire basta a conflitti, ritardi e complicazioni che bloccano, tra le altre cose, l’iter di completamento delle opere infrastrutturali di cui necessita il Paese.
Se anche tu pensi che l’Italia non meriti di rimanere indietro, di tornare nell’instabilità politica perenne che ha permesso la formazione di 63 governi in 70 anni di Repubblica, allora scegli di votare Sì.
Sarà un piacere poterlo fare insieme.
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Domenico Rossi, Sottosegretario di Stato del Ministero della Difesa
Carissime amiche ed amici della Confederazione, siamo alla stretta finale di questo lungo ed estenuante percorso che domenica 4 dicembre si concluderà con il voto degli italiani al referendum confermativo sulla riforma costituzionale, il vostro contributo potrà essere di grande aiuto per il nostro Paese.
Votiamo tutti insieme per un “Sì” forte e deciso che finalmente abolisca nel nostro Paese , dopo decenni di tentativi falliti, il bicameralismo perfetto; che finalmente dia una risposta concreta agli italiani sugli sprechi della politica , riducendo il numero dei parlamentari (da 315 a 100 senatori) ; che contenga i costi di funzionamento delle istituzioni, anche sopprimendo enti obsoleti ed inutili come il CNEL e che revisioni il titolo V della Costituzione riportando una maggiore potestà legislativa in capo allo Stato ,ma dando al territorio una maggiore possibilità di espressione tramite il Senato delle autonomie.
Con il “SI” non stiamo votando per Renzi, ma per il futuro del nostro Paese e dei nostri figli.
Con il “SI” i governi dureranno in carica per tutto il loro mandato, consentendo stabilità politica e sviluppo al nostro Paese.
Con il “SI” l’Europa e il mondo ci rispetteranno di più perché saremo certamente più affidabili.
Con il “SI” si affermerà per la prima volta il principio costituzionale della parità di rappresentanza nelle istituzioni fra uomo e donna.
Con il ”SI” verrà inserita costituzionalmente, per la prima volta, la possibilità di indire referendum popolari propositivi e d’indirizzo e altre forme di consultazione popolare, consentendo in tal modo al cittadino italiano di essere finalmente protagonista dei cambiamenti.
Con il “SI” verrà introdotto costituzionalmente il principio della trasparenza nella Pubblica Amministrazione.
Con il “SI” non si accrediterà una deriva autoritaria a Renzi, sia perché questa riforma è figlia di un’approvazione parlamentare precedente, sia perché essa nasce per rispondere alle esigenze e alla storia di un Paese e non per le ambizioni degli uomini.
Sicuramente con il “SI” la riforma costituzionale, anche se non perfetta, rappresenterà comunque un passo avanti per il nostro Paese e per i nostri figli, mentre con il “NO” si tornerà da punto a capo con un sistema politico sempre più litigioso e frammentato.
Vorrei concludere con una citazione del Presidente emerito Giorgio Napolitano, unico Presidente nella storia della nostra Repubblica, ad essere stato rieletto dal Parlamento, la citazione è: “ Con la riforma costituzionale avremo la possibilità di tornare a rendere il Parlamento un luogo degno”.
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Giovanni Toti, Presidente Regione Liguria
Il 4 dicembre gli italiani andranno a votare per esprimersi in merito ad una riforma che io giudico negativa per il Paese. Sono convinto che questa riforma, purtroppo, non funzionerà, determinando il passaggio da un bicameralismo perfetto a un bicameralismo molto pasticciato.
Io non sono tra coloro che ritengono la Costituzione intoccabile, non lo è il mio partito e non lo è il centrodestra che, come noto, fece una riforma costituzionale nel 2006 poi abrogata con un referendum popolare. Sebbene io creda che i presupposti di questa riforma siano sensati – a partire dalla riduzione del numero dei parlamentari fino alla semplificazione della politica – sono altrettanto convinto che il risultato, in caso di vittoria del sì, sarà una gigantesca eterogenesi dei fini: la riforma produrrebbe effetti esattamente contrari a quelli prefissati con un aumento del contenzioso costituzionale, nessuna significativa riduzione dei costi della politica e l’eliminazione del diritto di voto in capo ai cittadini che, già privati del voto per le Province, non eleggeranno più neppure i senatori. Il risparmio prodotto da questa riforma sarebbe di una cinquantina di milioni di euro all’anno: se si considera che nei venti mesi di governo Renzi il debito pubblico è cresciuto al ritmo forsennato di circa 7 milioni di euro all’ora, è evidente che si può fare di più e di meglio. Il cosiddetto “Senato delle Autonomie”, con senatori senza vincolo di mandato e non più eletti dai cittadini, diventerebbe una sorta di doppione della Conferenza Stato Regioni che già esiste e che questa riforma non abolisce. Senza contare che le assemblee regionali e i Comuni si rinnovano in tempi diversi e quindi il Senato avrebbe una composizione molto variabile. Questa riforma, inoltre, vanifica anni di lotte per riavvicinare la politica ai cittadini: la riforma del Titolo V elimina, infatti, le materie di competenza concorrente fra Stato e Regioni per trasferirle quasi tutte allo Stato (su 19 complessive, 12 diventano esclusive dello Stato, 6 rimangono concorrenti, 1 resta esclusiva delle Regioni), riportandoci così ai tempi della Prima Repubblica, a quell’Italia in cui tutto veniva deciso a Roma, nelle stanze fumose dei ministeri, lontano da imprese, famiglie e cittadini.
Rispetto all’esito del referendum ritengo giusto, poi, rassicurare gli italiani: a dispetto di coloro che paventano fallimenti di istituti bancari, invasioni di cavallette, carestie e glaciazioni in caso di vittoria del no, posso garantire che anche il 5 dicembre il sole sorgerà a est e tramonterà a ovest e, chiunque vinca questa sfida referendaria, l’Italia rimarrà un paese solido con solide Istituzioni. Dopodiché è chiaro che questa riforma è la riforma di Matteo Renzi e gli italiani domenica esprimeranno un giudizio anche sui due anni del suo governo.